C’è un libro “antico” che ho molto apprezzato e che, negli anni, ho ogni tanto ripreso in mano: “La Colomba assassinata” di H. Laborit. Questi, neurofisiologo, candidato al premio Nobel per la medicina, scopritore della prima cura della schizofrenia attraverso la clorpromazina, capostipite dei farmaci per i disturbi psichiatrici, ha avuto molto successo anche al di fuori della stretta cerchia accademica; tanto da influenzare profondamente anche un maestro di cinema come Alain Resnais che utilizzò le sue idee per farne uno straordinario film dal titolo “Mon oncle d’Amérique”(1980) in cui lo scienziato compare anche in un “cammeo”.
Secondo la tesi portata avanti da Laborit nel citato libro, il nostro cervello, di fronte a stress o a una sfida o ad un problema, è funzionalmente”programmato” per la fuga: sarebbe la nostra prima e preferita opzione. Scrive, poeticamente, Laborit nel libro “l’elogio della fuga”: “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di vele. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio”. Quando la fuga non è possibile, oppure è troppo “costosa”, scatta l’aggressività, tanto da portare Laborit a scrivere: «Lo jogging, il ritorno della bicicletta, lo sport in genere, i cortei con o senza lancio di sassi alle vetrine, pestaggio di agenti e incendio di qualche macchina permettono, in un mondo completamente inibito nell’azione gratificante, di compiere azioni che, perfettamente inefficaci sul piano sociologico perché rischiano ben poco di trasformare l’insieme delle strutture sociali, hanno probabilmente alcuni meriti terapeutici sul piano individuale. Il solo timore é che favorendo il ritorno all’equilibrio biologico individuale, favoriscano anche la continuazione di una società la cui contestazione nasce unicamente dal “malessere” che essa provoca. In questo senso si tratterebbe soltanto di una specie di “tranquillante” non chimico». Parole forti che ben fotografano anche il clima, post ’68, in cui sono state scritte.
Laborit continua dicendo che l’impossibilità di mettere in atto strategie di fuga o di combattimento porta all’inibizione e alla paralisi comportamentale con tutto il corredo di malattie di tipo psicosomatiche: ulcera gastrointestinale, ipertensione arteriosa, etc. Il lato interessante è che questa teoria è stata, recentemente confermata, pur con alcune differenze, da Porges sul fenomeno del “freezing”, il congelamento, del comportamento come spiegato nel mio sito www.mindfulness-roma.it e a cui rimando.
Il problema non da poco è che culturalmente diamo una connotazione negativa a questo termine; spesso associamo l fuga a vigliaccheria, pavidità, mancanza di carattere, etc. Per cui chi sceglie la fuga o il tirarsi fuori diventa un vigliacco.
Ma veniamo a titolo di questo post: cosa hanno in comune Nico Rosberg e John Key alla luce di quanto abbiamo detto? Sicuramente sono due persone di successo: uno neo campione del mondo di formula 1, l’altro Primo Ministro del governo neozelandese, con un altissimo seguito da oltre 8 anni e di cui già si pronosticava la vittoria alle prossime elezioni. Cosa altro? Direi la consapevolezza profonda della propria situazione e dei costi relativi sia da un punto relazionale che personale. Non a caso tutti e due hanno citato l’eccesso di stress e pressione psicologica per se e per la propria famiglia come motivo principale dell’abbandono della contesa sportiva e politica e della propria fuga. Consapevolezza che, forse, viene dalla capacità di ascoltarsi, di ascoltare la parte più profonda di se stessi, quello che Hilmann chiama il proprio”dàimon”, quello che ci ispira nella nostra realizzazione personale. Certamente non due vigliacchi, ma persone capaci valutare pro e contro e di scegliere sulla base di una scala di valori personali. Non vigliaccheria ma coraggio di percorrere strade nuove, di “pensare pensieri mai pensati”, fuggendo strade ben tracciate. Non a caso tutti e due questi eroi hanno, nella loro dichiarazione, detto di non sapere cosa faranno domani. Sembra che Laborit abbia scritto per loro: “…perseguire un obiettivo che cambia continuamente e che non è mai raggiunto è forse l’unico rimedio all’abitudine, all’indifferenza, alla sazietà. E’ tipico della condizione umana ed è elogio della fuga, non per indietreggiare ma per avanzare. E’ l’elogio dell’immaginazione mai attuata e mai soddisfacente”