Certamente non voglio fare una trattazione di tutti gli aspetti che l’evoluzione del rapporto medico paziente ci sta presentando e neppure fare un trattato di bioetica ma solo evidenziarne alcuni temi con cui medici e pazienti dovranno confrontarsi.

Ora dopo  esserci tolti di dosso la storia, necessaria d’altra parte per capire l’oggi, veniamo a quanto abbiamo davanti e alle possibili soluzioni che possono essere prospettate. Se dovessi indicare un fenomeno che non solo sta modificando lo scenario attuale, ma ancor di più penso influenzerà il panorama della relazione medico paziente in futuro, direi la bioetica.

Questo termine è stato introdotto per la prima volta da Fritz Jahr, che nel 1927, parlò di “imperativo bioetico” che imponeva di trattare le persone come fine in sé stessi e non come mezzi per ottenere qualcosa. Storicamente, nella definizione e nella caratterizzazione della bioetica, si sono imposti quattro principi che rappresentano un vero e proprio faro per giudicare se una pratica medica o una procedura risponde positivamente al vaglio della bioetica. Essi sono:
Principio di Beneficenza: il personale sanitario deve agire tutelando l’interesse del paziente;

Principio di Non Maleficenza o “primum non nocere“: il personale sanitario non deve causare danno al paziente;

Principio di Giustizia: in caso di risorse limitate, i trattamenti devono essere distribuiti tra i pazienti in modo equo e giusto.

Principio di Autonomia: il paziente ha diritto di rifiutare il trattamento e di prendere parte al processo decisionale

Tralasciamo i primi 3 abbastanza intuitivi e su cui possiamo trovarci tutti d’accordo e veniamo al 4° che sicuramente mette in luce aspetti che meritano di essere approfonditi in quanto più problematici.

Con il termine di autonomia si intende il potere di un soggetto di dare a sé stesso la propria legge o, detto in altre parole, il potere di decidere, senza alcuna costrizione imposta da altri, le proprie regole di comportamento. E’ evidente come entrambi le definizioni esprimano apertamente il concetto di potere. Dunque autonomia è, evidentemente, potere di autodeterminazione e liceità di scelte anche diverse da quelle del medico. E’ qui appena il caso di accennare a quanto si sosteneva nel post precedente sullo spostamento del centro del potere dal medico al paziente. Detta così sembra una cosa abbastanza banale, ma, vista in prospettiva e in profondità, questo spostamento si presenta come una vera e propria rivoluzione copernicana: tutto non gira più intorno al medico ma, piuttosto, intorno al paziente che diventa una figura centrale. Non è più il medico che “governa il corpo del paziente come Dio governa il mondo” ma piuttosto il paziente che si “autogoverna”.  tanto che il titolo di un interessante libro di Spinsanti è “Chi ha potere sul mio corpo?” In questo senso, il paziente, diventato cliente da soddisfare, non è solo quello che “controlla” la spesa come abbiamo visto precedentemente, ma diventa anche quello che decide le regole del gioco con cui giocare. E’ lui che, in forza di un’accresciuta consapevolezza, ha il potere di decidere se e quale terapia effettuare. E’ a lui che dobbiamo chiedere il “permesso” di effettuare un’indagine o un intervento chirurgico, permesso ottenuto con il consenso informato. E per ottenerlo, il medico ha l’obbligo di spiegare i rischi che il paziente dovrà correre, i vantaggi attesi e gli eventuali rischi che questi correrà. Eh sì, perché solo in un mondo perfetto e innaturale il rischio è una categoria esistenziale inesistente. Paziente che ha, alla fine di questo percorso di conoscenza, il diritto di rifiutare le eventuali terapie proposte se non in linea con le proprie idee.

Tra gli effetti di questo spostamento di potere c’è anche quello che è stato definito relativismo etico; vale a dire la capacità riconosciuta al paziente di stabilire anche le regole etiche che governano le sue scelte. Dobbiamo partire dal presupposto che l’etica che sta alla base delle nostre scelte è diventata assolutamente personale.E’ evidente, come sostenuto da H T. Engelhardt Jr alla fine degli anni ’80, che le persone sono spesso “stranieri morali” nel senso che abitano “mondi morali” diversi e spesso inconciliabili per cui l’altro viene visto come come straniero in virtù della diversità delle sue posizioni morali. La psicologia ha identificato i due atteggiamenti che stanno alla base delle nostre scelte. Il primo, definito “Dont play God” (non giocare il ruolo di Dio), si basa sulla scelta di affidarsi a Dio o al Fato e lasciare a Lui la decisione; il secondo principio si basa sulla necessità di riduzione del danno e/o della sofferenza altrui. Anche intuitivamente è evidente che questi due principi sono assolutamente inconciliabili.Qui non si tratta di dare un valore maggiore o minore ad una o all’altra modalità etica: si tratta piuttosto di capire come premesse diverse, ugualmente lecite ma diverse, porteranno a comportamenti diversi. Questi diversi scenari e la loro inconciliabilità spiega forse perché non sia stata ancora fatta una legge sul fine vita o sul testamento biologico che la contiene.

Se queste sono le premesse, quale futuro ci attende?

Non è facile tratteggiare un possibile futuro dato che molte sono le variabili che in un modo o nell’altro influenzeranno la relazione medico/paziente. Come dicevamo nel post precedente “Le origini del conflitto senza precedenti che stiamo vivendo sono da ricercare nelle ben più profonde forze storiche di cui medici e pazienti sono inconsapevoli …. e ben poco dipendono da vizi e virtù private”. Evidente che i cambiamenti culturali, sociali ed economici abbiano degli effetti sulla relazione terapeutica. Pensiamo al progressivo invecchiamento della popolazione non sostenuto dall’ingresso di nuovi soggetti nel mondo del lavoro. Questo porterà facilmente a dover ripensare al nostro modello di welfare. Pensiamo all’uso della tecnologia che oggi permette di fare molto, a volte anche troppo….., ma che presenta dei costi molto elevati. Pensiamo alla riduzione delle risorse economiche dovuto ad una crisi, che forse è una crisi di sistema su cui si basa la nostra società, e che ulteriormente complicherà gli effetti dell’invecchiamento della popolazione. Pensiamo alle forze sociali che si concretizzano nell’uso della rete e dei social network e di cui abbiamo già parlato.

In quest’ottica, è evidente la necessità del “parlami, ho tante cose da dirti”. Dobbiamo tutti, medici e pazienti, riportare il dialogo e l’ascolto al centro della relazione. Dobbiamo ascoltare in modo “mindful”, consapevole, quanto il paziente ha da dirci: la sua storia, il suo mondo, le sue aspettative, i suoi valori. Se siamo inseriti in uno scenario di cambiamento, la dote più importante è la flessibilità che ci permette di creare il nuovo.

Non esiste un “nuovo medico” senza un “nuovo paziente”; nuovo paziente  che non è quello che tace ed acconsente ma quello che sente non solo il diritto ma soprattutto il dovere di parlare della sua malattia; nuovo paziente che ha e sente il diritto di ricevere tempo e cura di essere informato; nuovo paziente che percepisce che essere curato non è essere oggetto di un atto di benevolenza, fosse anche ammantato di una certa quantità di umanizzazione, ma esercitare un diritto di libertà e di responsabilità. Se da una parte il nuovo medico non è il padrone del paziente, dall’altra non può essere il mero esecutore della volontà del paziente stesso. C’è dunque bisogno di creare tra “nuovo medico” e “nuovo paziente” una “nuova” alleanza terapeutica che si basi sul rispetto reciproco che i due si riconoscono, in cui la partecipazione a scelte condivise nasca dalla collaborazione tra attori con pari dignità ma diversi ruoli e funzioni. Allora sarà se non più facile forse meno difficile trovare soluzioni a problemi che impattano in modo importante sulle nostre scelte etiche

 

“I pazienti non sono isterici, e i medici non sono brutali e avidi” (Shorter 1985)

PS: Una breve annotazione sul film Silence di Scorsese. Tratteggiato benissimo come i mondi morali diversi portino a esiti diversi.

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