Week end di studio decisamente interessante al Master, con una messa a punto  di un “grande” della ricerca sulla Mindfulness: Peter Malinowski. Questo studioso, professore di neuroscienze cognitive all’Università John Moores di Liverpool, fondatore del “Meditation and Mindfulnesss Research Group” è ritenuto  uno dei principali ricercatori su Mindfulness e cervello. Week end interessante, dicevo, per lo spessore scientifico del relatore, per le ricerche che ha condiviso e per la profonda pratica di meditazione da lui portata avanti da tanti anni che si riverbera sul suo modo di essere.

Cercherò di estrapolare, dalle sue relazioni, alcuni aspetti e osservazioni  che mi sembrano illuminanti su quanto la ricerca in questo campo ci sta proponendo attualmente.

 

Una prima osservazione è il paragone che Malinowski ha fatto tra teoria di Einstein ed alcuni aspetti delle pratiche meditative.

Immaginiamo di essere in un treno e di osservare il passeggero seduto davanti a noi. Apparentemente, questa persona è immobile; ma se la stessa viene vista da un osservatore esterno che vede passare il treno allora non solo noi ma anche l’altro passeggero saremo in movimento. In sostanza per osservare il movimento dobbiamo, in certo qual senso,  prendere una certa distanza da quanto vogliamo osservare. La Mindfulness e, in genere, anche le altre pratiche meditative, determinano quella distanza che ci permette di osservare lo svolgersi dei fenomeni che , nella lettura orientale della mente, sono sostanzialmente dei processi. Ad esempio se, attraverso le pratiche meditative, riesco a osservare lo svolgersi dei pensieri che affollano la mente con il loro chiacchiericcio allora sarò in grado di capire quanto io sia invischiato nei pensieri stessi: sarò come l’osservatore che vede passare il treno. Questo è un punto centrale: con la distanza sarò in grado non tanto di bloccare i miei pensieri ma di impedire che i miei pensieri governino me. Vuol dire non tanto eliminare il vagare della mente in generale, cosa utile per cui il nostro cervello è programmato a fare, quanto rendermi conto di quella quota di pensiero disfunzionale  del vagare della mente che ci porta ad errori di giudizio, reattività e, in generale, a sofferenza psichica. Rendersi conto di avere nella testa un criceto che continua a correre disperatamente senza rendersi conto che non sta andando da nessuna parte.

A proposito dei pensieri e della loro consapevolezza, Malinowski ha citato un testo, il Kamalashila, dell’ottavo secolo che paragona lo scorrere dei pensieri ad un corso d’acqua. All’inizio i nostri pensieri saranno come una cascata impetuosa in cui è impossibile fermare lo scorrere dell’acqua; successivamente, con le pratiche meditative, questo diventerà un fiume che scorre tra delle gole ripide, poi lento in una spaziosa valle, poi ancora un oceano senza onde, per diventare alla fine una montagna immobile. Bella metafora per illustrare come, con l’acquietarsi della mente, i pensieri siano sempre più lenti e osservabili.

Questo qui a fianco il Liverpool Mindfulness Model presentato da Malinowski. Punto centrale è l’attenzione che rappresenta il crocevia degli effetti della pratica di Mindfulness in relazione con la flessibilità sia cognitiva che emotiva. Aspetti che rappresentano l’effetto delle pratiche meditative e la causa, attraverso una consapevolezza equanime senza attaccamento e senza evitamento, del benessere fisico e psichico. Al centro degli effetti, nel modello proposto, troviamo l’agire in modo autonomo, libero e consapevole.  Come ricordato da Malinowski, la Mindfulness migliora la capacità della nostra mente di vedere e, di conseguenza, di cambiare il nostro stato cognitivo ed emotivo. Vuol dire avere un monitoraggio delle nostre emozioni, di capire perché siamo tristi o arrabbiati, contenti o impauriti. Vuol dire avere la possibilità di verificare anche le nostre condizioni cognitive. Vuol dire dilatare quello spazio, di cui abbiamo già parlato in un precedente post, che sta tra lo stimolo e la risposta.Di conseguenza, possiamo scegliere la migliore strategia da mettere in atto sia da un punto di vista emotivo che cognitivo, aiutandoci a rispondere e a non reagire in modo automatico e senza consapevolezza.

Un’altro punto interessante  è quello che la Mindfulness determina un miglioramento duraturo della capacità di effettuazione di un compito. Sembra, dai lavori scientifici presentati, che questo effetto positivo sia legato ad un cervello molto più, si direbbe oggi wired, connesso. Si è visto che il cervello dei meditanti si presenta con maggiori connessioni rispetto ai non meditanti. Inoltre, il cervello riesce a utilizzare un numero minore di neuroni quando è allenato alle attività meditative. La stessa cosa avviene nei  soggetti bilingue che utilizzano, nelle attività legate al linguaggio, un numero minore di neuroni.

Oggi sappiamo bene che educazione, occupazione, attività fisica e occupazioni ricreative hanno un effetto protettivo sull’incidenza dell’Alzheimer e sulle sue manifestazioni. Così sembrerebbe che imparare una lingua faccia ritardare l’insorgenza di questa forma di demenza. Resta da domandarsi:

“Perché imparare il tedesco? Se è per studiare la filosofia va bene, ma se è per ritardare l’insorgenza dell’Alzheimer forse è meglio trovarsi un’altra occupazione più divertente” (F. Fabbro)

 

 

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