….. Dopo aver visto cosa è la paura, a cosa serve, cosa determina a livello del nostro corpo e come funziona cerchiamo di vedere perché il meccanismo a essa legato può essere invalidante e portarci a non vivere pienamente la nostra vita. Qui, evidentemente, parliamo non del camion che ci sta venendo addosso o dello strapiombo che vediamo a pochi centimetri dai nostri piedi e in cui la paura rappresenta un elemento utile. Parliamo piuttosto della paura di un evento futuro di cui temiamo l’avverarsi, evento solo ipotizzato basandosi su dati non reali o realistici. Come abbiamo visto, la paura scatta quando percepiamo una minaccia per la nostra sicurezza. E questo è il primo punto: la percezione della minaccia avviene a livello della nostra mente. E’ lì che dobbiamo cominciare ad indagare. E’ questa che fa il primo bilancio dell’entità della minaccia. E se questo bilancio viene fatto su dati ipotetici e prevedendo conseguenze ritenute drammatiche anche la paura si connoterà di drammaticità. Affrontare la paura vuol dire, in primo luogo, affrontare la nostra mente, cercare di capire perché questa ha fatto scattare quell’insieme di sensazioni fisiche e psichiche che identifichiamo con questo termine. Osservare la nostra mente e i suoi meccanismi può permetterci di abitare quello spazio che sta tra lo stimolo che determina la paura e le sensazioni e gli atteggiamenti che ad essa seguono. Diceva il grande psicoterapeuta V. Frankl “tra stimolo e risposta che ad esso diamo c’è uno spazio e in questo sta il nostro successo e la nostra crescita”. Dunque, per capire la paura e soprattutto la “nostra” paura dobbiamo osservare la nostra mente. Un aneddoto clinico di un paziente che ho avuto in cura, e di cui ho modificato diversi particolari per renderlo irriconoscibile, può illustrare quello che stiamo dicendo.
Maurizio, 55 anni, è un chirurgo molto bravo abituato a effettuare interventi importanti della durata anche di molte ore, sempre inappuntabile e con un curriculum di assoluto valore. Un certo giorno, si trova a effettuare un intervento drammatico: un uomo viene portato in sala operatoria in condizioni disperate dopo una sparatoria in cui si era trovato coinvolto. Nonostante i suoi sforzi il paziente muore durante l’intervento. Sebbene a Maurizio non si potesse imputare alcune responsabilità, questi entra in un cerchio che via via lo limita sempre più: comincia ad avere paura di andare in sala operatoria. Inizialmente questa emozione era presente solo negli interventi più difficili e impegnativi: era presente una sudorazione profusa, tachicardia, bocca secca e mal di pancia, la classica reazione da stress. Maurizio, per superare queste sensazioni, aveva cominciato a far uso di ansiolitici la mattina. Purtroppo queste misure non avevano portato alcun beneficio effettivo e Maurizio lentamente ma progressivamente aveva ridotto gli interventi più importanti fino a delegarli completamente ai suoi collaboratori. Man mano che il tempo passava la difficoltà degli interventi effettuati si andava progressivamente abbassando, tanto che alla fine anche una semplice appendicectomia non complicata, una banalità per un chirurgo come lui, determinata gli stessi sintomi. Alla fine, nonostante la sua bravura Maurizio rinuncia completamente alla sala operatoria che era il posto dove lui negli anni precedenti si sentiva più a suo agio. Questo abbandono determinerà oltre a problemi alla vita di coppia anche una forma di depressione. Il nostro chirurgo, che mi aveva conosciuto durante una conferenza sulla mindfulness e gestione dello stress, mi consulta per un parere. Cominciamo così un lavoro, utilizzando anche le pratiche di mindfulness, che si protrarrà per circa 1 anno in cui abbiamo lavorato sulle sue paure e su come queste abbiano progressivamente ridotto le sue attività chirurgiche determinando anche degli effetti sulla sua vita di relazione. Attraverso il lavoro svolto, Maurizio comincia a capire che la paura di andare in sala operatoria deriva dalla percezione che l’eventuale insuccesso o complicazione si sarebbe tramutato nella perdita di stima degli altri nei suoi confronti: in sostanza la sua paura era determinata dalla pressione che aveva sempre ricevuto, fin dall’infanzia, ad essere sempre perfetto, inappuntabile e senza difetti. Piano piano Maurizio ha cominciato ad abbracciare la sua paura, guardandola in faccia e vedendo, attraverso di essa, la pressione e i condizionamenti che aveva dovuto subire. Maurizio ha cominciato, tornando a Franke, ad abitare lo spazio che stava tra le conseguenze temute, la perdita di considerazione, e l’attacco della paura. Dilatando questo spazio ha cominciando a sottoporre a critica la validità della minaccia, sottoponendola ad una “analisi di realtà” e rendendosi conto che la minaccia era stata in realtà sopravvalutata. Osservando e sminuendo la minaccia percepita lentamente ha cominciato a accettare il rischio insito nella minaccia decidendo di potere e volere non essere da essa condizionato.
Oggi Maurizio è tornato in sala operatoria, a volte sente ancora la paura che lo ha tanto condizionato ma che chiama per nome e di cui è diventato capace di ridere.
Che insegnamento possiamo trarre?
In primo luogo, il negare con se stessi questa emozione, di fatto, la fa aumentare. Non solo ma per non sentirla tendiamo ridurre sempre più quelle condizioni che la scatenano. Peccato che tale strategia sia disfunzionale dato che riduce sempre più le opzioni che abbiamo a disposizione, obbligandoci a rinchiuderci in spazi psicologicamente sempre più ristretti. Come il chirurgo riduceva sempre più la difficoltà dei suoi interventi fino a evitare di operare anche gli interventi più semplici, così noi tendiamo ad aumentare in modo sempre più marcato le nostre “protezioni”: se abbiamo paura, ad esempio, dei furti cominceremo a mettere le grate alle finestre, poi a dotarci di sistemi antifurto sempre più sofisticati, a mettere doppie e triple chiavi, finendo per vivere blindati e barricati in casa per la paura, appunto, dei furti. Con la certezza, peraltro, che nessun sistema è inviolabile. Prendiamo la paura di parlare in pubblico. Se questa raggiunge livelli patologici per annullare l’ansia eviteremo di parlare prima davanti a molte persone per arrivare a provare disagio di fronte a poche persone, fino ad evitare qualsiasi colloquio. Si tratta di meccanismi di evitamento che, evidentemente, ridurranno sempre più i nostri spazi vitali.
Il secondo aspetto è che possibile invertire questa tendenza all’evitamento se cominciamo ad approfondire dentro di noi, eventualmente con un aiuto, cosa la nostra paura nasconda, di cosa sia espressione e, in fondo, quale insegnamento ci possa dare. Abbracciare la nostra paura, dicevo prima, vederla in ogni suo aspetto e in quello che ci determina, dove ci colpisce, cosa ci costringe a fare, come ci limita e che prezzo stiamo pagando nel non accettarla. Valutare se la minaccia di cui la paura è logica conseguenza è reale e concreta, se, ad una “analisi di realtà”, percepiamo che i dati che abbiamo a disposizione per valutarla sono completi. Prendiamo una paura abbastanza diffusa ai nostri giorni: quella degli immigrati e dei rischi correlati per la nostra società. In un “vagone 2° classe Roma Milano” è facile sentire frasi tipo “Siamo invasi”, “Portano malattie” e “Violentano le donne”. Valutiamole rapidamente; alla prima possiamo facilmente ribattere che solo 8% dei migranti in Italia vuole restare nel nostro paese e che la percentuale di migranti per abitante è molto più bassa da noi e che Svezia e Germania ne hanno percentualmente più di noi. Sulle malattie ci confortano i dati che dicono che sono più le malattie che i migranti prendono da noi di quelle che ci trasmettono. I migranti che vengono nei nostri paesi sono più soggetti a malattie come il morbillo che sono poco frequenti da loro e per cui non hanno anticorpi. Violentano le donne. La stragrande maggioranza delle violenze sessuali sono dovute a persone di famiglia o che comunque frequentavano quell’ambiente. Le violenze sessuali sono solo marginalmente dovute a immigrati. Allora vale la pena di sottoporre a “analisi di realtà” tutti i convincimenti, spesso indotti da persone che hanno interessi in gioco, prima di affidare a tali convincimenti la valutazione della minaccia percepita.
E, forse, vale la pena di sottoporre alla stessa analisi di realtà anche i convincimenti che stanno alla base delle nostre più inconfessabili paure
“Che cosa accadrà all’uomo che fugge per il terrore?”
”Non gli accadrà nulla, tranne che non imparerà mai. Non diventerà mai un uomo di conoscenza. Sarà forse un uomo borioso, o innocuo, o spaventato; in ogni caso, sarà un uomo sconfitto. Il suo primo nemico avrà messo fine ai suoi desideri”. (C. Castaneda)