Nel “mondo che sta tra le orecchie”, nella nostra mente si agitano
alcuni personaggi molto interessanti, certamente interconnessi ma
nello stesso tempo separati, che dominano la nostra scena mentale.
Ognuno dei quali svolge una particolare funzione, come confermato
dagli studi di neuroscienze.
Da una parte abbiamo l’io che sperimenta lo scorrere
dell’esperienza, che potremmo chiamare “io o sé senziente”. Questo
è l’io che gusta intensamente un gelato o si immerge,
completamente assorbito, nella luce tenue di un bellissimo
tramonto al mare; l’io che vive nello sperimentare quello che
succede qui e ora. Questo io “non parla” nel senso che aderisce
all’esperienza bella o brutta che sia del momento presente senza
che ci sia alcuna valutazione, confronto, paragone etc con le
precedenti esperienze o le proprie aspettative. Potremmo definirlo
l’io dell’essere, nel senso di un sé che “è” l’esperienza; non solo ma
è quello che ci permette di renderci conto che noi non siamo una
realtà statica ma in continuo cambiamento, un processo in continua
evoluzione. Per usare un dato scientifico è il sé che funziona in
modalità bottom-up; vale a dire le sensazioni, nel senso più ampio
del termine, arrivano alla coscienza dalla periferia non “filtrate”, in
modo puro. Poi abbiamo “l’io narrante” quello che continuamente
costruisce storie, racconti e prospettive su di noi, sugli altri e sul
mondo in generale. È l’io che ci fornisce una, solo apparente,
stabile realtà mettendo insieme frammenti di ricordi, giudizi,
aspettative. È l’io che ci “racconta” la nostra storia, di chi siamo.
Peccato che questo io sia capace di cambiare continuamente la
storia: quella di oggi potrebbe essere diversa da quella che ci
racconterà domani. Lavora con il copia-incolla: rimodella
continuamente la storia che ci racconta aggiungendo, togliendo,
sottolineando i vari elementi. È l’io che continuamente “filtra” le
esperienze che facciamo, qualunque esperienza, cercando di dare
coerenza alla storia stessa, forzandola ad entrare nella storia
stessa. Purtroppo è una coerenza fasulla, in quanto rappresenta
una verità fittizia costruita a suo uso e consumo. Questo io è quello
che ci fa pensare, erroneamente, di avere una sorta di fil rouge che
lega tutte le nostre esperienze in modo coerente: noi siamo
essenzialmente la nostra storia. Questo io è quello che spesso ci
imprigiona dentro la camicia di forza di ruoli e funzioni rigidi e fa
corrispondere a chi io sia con pensieri ed emozioni che ho di me
stesso. Possiamo dire che l’io narrante lavora in modalità
diametralmente opposta all’io dell’essere: lavora in modalità top-
down nel senso che quello che sperimentiamo viene completamente
modificato e filtrato da valutazioni, paragoni, distorsioni cognitive,
giudizi etc; in sostanza dalla storia che ci si costruisce. Il tutto in un
viaggio continuo tra passato e futuro, e mai nel presente. Tornando
all’esempio di prima: mangia il gelato ma pensa quello della
gelateria all’angolo è più buono, il tramonto di oggi è meno bello di
quello dell’anno scorso visto con Maria. “Ah Maria quanto mi manca
forse domani la cercherò”. È stato definito l’io del fare. Non che
questa prospettiva sia di per sé dannosa. È, infatti, la sua capacità
di viaggiare nel tempo, paragonare, valutare, creare, confrontare
ecc. una risorsa importante dato che è quello che ci permette di
fare dei progetti, creare cose, avere degli obbiettivi, etc. Se,
tuttavia, questa modalità diventa preponderante, allora sarà
inevitabile un certo disagio psicologico in quanto non stiamo
vivendo. Come è stato detto “La vita è quello che succede mentre
sei impegnato a fare progetti”. Ma c’è anche un altro io, c’è quello
che potremmo definire Io osservante: l’io che osserva tutti gli
accadimenti che avvengono nel nostro mondo mentale e fisico:
pensieri, ricordi, sensazioni, emozioni. Potremmo paragonarlo, per
usare una metafora dell’ACT, alla scacchiera: non partecipa al
gioco, non parteggia per nessuno; è semplicemente il contenitore
che contiene gli scacchi. Vi invito a pensare per un attimo ad una
emozione che in questo momento vi disturba: ad esempio la
tristezza o l’ansia. Ora provate a dire ripetutamente “io sono
ansioso” o “io sono triste” per almeno 10 secondi. Riuscite a
percepire l’ansia/tristezza dentro di voi? Bene. A questo punto per
altri 10 secondi provate a dire “Noto che c’è ’ansia/tristezza dentro
di me”. Come è cambiata la percezione dell’ansia? Probabilmente
ridotta. Il prendere la prospettiva dell’io osservante ci permette di
mettere una distanza dalle nostre emozioni. Ciò non vuol dire che
neghiamo le nostre emozioni. Anzi, semplicemente che possiamo
vederle all’opera guardandole in un panorama più grande.
Cosa comportano queste osservazioni per la nostra vita di tutti i
giorni e per il nostro benessere psicologico?
Se diamo credito all’io narrante che fa di noi, ad esempio, un
disastro, dicendoci continuamente che non siamo degni di essere
amati, che non valiamo niente, che abbiamo bisogno
dell’approvazione degli altri, che sbagliamo sempre tutto, è
evidente come questo “chiacchiericcio” mentale mini alla base la
capacità di avere relazioni positive con gli altri e di realizzare i
nostri obbiettivi di vita. Ma è vero anche il contrario; se questo io
mi dice che sono bravissimo, intelligentissimo, capace di gesti eroici
etc ci imprigionerà all’interno di una storia in cui il minimo errore
può avere effetti devastanti sulla mia condizione psicologica.
Di fronte a questa babele dell’Io possiamo essere in grado di
“surfare” tra tutte funzioni dell’io senza lasciare che qualcuno di
questi diversi “io” prenda il controllo della nostra vita. Possiamo
essere in grado di scegliere quale io privilegiare quando devo fare
la dichiarazione dei redditi e quando stiamo al mare. Buona parte
della sofferenza o del disagio psicologico dipende da una scelta
sbagliata su che io usare: è la flessibilità psicologica.