Prendo spunto da un episodio di cronaca che è comparso su tutti i giornali. Le fotografie dell’esercito di formiche che impazzano sul letto di un’ammalata a Napoli, attaccata a una flebo, dunque nell’impossibilità di muoversi, hanno fatto (purtroppo!!) il giro del mondo. Non entro nel merito del fatto, già di per se agghiacciante e facilmente condannabile, quanto su come questo sia, mi sembra, il risultato di un atteggiamento piuttosto generalizzato. Ho l’impressione che il nostro livello di guardia nei riguardi della sciatteria e superficialità si sia andato progressivamente abbassando; sembra che, nel mondo reale della vita di tutti i giorni, la nostra sensibilità si sia attutita.
Colgo questa impressione da una serie infinita di piccoli e grandi segnali: dal telefono di ospedali e enti pubblici che squilla inutilmente alle corse annullate degli autobus alle scritte sui vagoni della metropolitana; dalla mancanza di professionalità dell’addetto al pubblico al medico che, durante la visita, nemmeno ti guarda in faccia alle scritte e ai graffiti dei writer su muri che hanno più di 2000 anni; dalle apparecchiature costate miliardi e abbandonate negli scantinati a quelli che timbrano il cartellino prima di andare a giocare a tennis….. e l’elenco potrebbe continuare.
Ci sono alla base di questi fatti una serie di fenomeni: la mancata percezione di quello che gli anglosassoni chiamano accountability , intesa come la responsabilità degli amministratori nei confronti della comunità, la mancanza di un senso di condivisione nei confronti dell’intera comunità e la mancanza di consapevolezza dei propri atti e del lavoro che si svolge.
L’idea della accountability è presente in modo profondo nelle società anglosassoni e nordiche in generale. In base a questa, chi amministra ha la responsabilità nei confronti di chi li ha nominati e ancor di più della collettività o, per dirla in modo brutale, di chi gli paga lo stipendio. E’ un concetto che si è fatta poca strada nella nostra società; anche se le sentenze di danno erariale emesse dalla Corte dei Conti ne sono certamente dei primi segnali. Il concetto di danno erariale, non me ne vogliano i giuristi, è sostanzialmente quello che un dipendente pubblico può e deve essere chiamato a rispondere anche economicamente dei suoi atti se questi hanno determinato un danno alla collettività … ma qui siamo già quando il danno è stato fatto.
Il secondo punto è la mancanza di condivisione nei confronti degli altri. E’ uno dei frutti avvelenati dell’idea regnate nella nostra società: quella del conto solo io, e gli altri sono al mio servizio. Lo troviamo anche a livello di politiche internazionali, come il disinteresse delle politiche di Trump nei confronti delle politiche ambientali: che migliaia di persone muoiano per un uragano, legato al surriscaldamento dell’atmosfera, in India o che le polveri sottili legate ai combustibili fossili come carbone o petrolio siano alla base della sofferenza di milioni di persone importa poco. L’ego soggettivo o nazionale è come un “moloch” che richiede sacrifici sempre maggiori, per sostenersi e alimentarsi; senza curarsi delle conseguenze e degli degli effetti del proprio comportamento. Cosa importa se l’incuria o lo spreco di risorse determinerà un danno agli altri, dimenticando che prima o poi quegli altri diventeremo noi? In fondo un tale modo di pensare e di agire tralascia un aspetto fondamentale, quello dell’interconnessione. Che lo vogliamo o no le nostre vite sono interconnesse e nessuno è un’isola, per usare il titolo di un libro di Merton. Anche la cellula più semplice del nostro corpo può funzionare solo se è servita da altre cellule che le forniscono alimentazione, corretti scambi metabolici e tutte insieme possono fare in modo che l’intero organismo possa crescere, svilupparsi e raggiungere i traguardi più efficaci. La mentalità più frequente è quella delle cellule di un cancro in cui ogni cellula cresce voracemente a dismisura, senza limiti e obbligando tutto l’organismo a “servirla” a tal punto di portarlo a morte. La mancanza di un corretto senso di interconnessione è proprio il cancro da cui, senza renderci conto, siamo affetti e che potrebbe portarci a morte.
Strettamente legato a quest’ultimo punto è la mancata consapevolezza portata nella vita di tutti i giorni e negli atti piccoli e grandi che la compongono. Buttare per terra la cartina di una caramella, graffiare i vetri dell’autobus con il propio nome o quello della fidanzata, sbagliare un nome su una pratica, aspettare oltre un anno per scrivere una sentenza, non differenziare l’immondizia, scrivere con una bomboletta spray su un muro, provocare un incidente per essere passato con il rosso, leggere gli sms alla guida, sono tutti fatti caratterizzati dalla mancata consapevolezza di quello che stiamo facendo e delle loro, a volte, drammatiche conseguenze. Tale mancata consapevolezza determina, se non altro, poi la sciatteria e la superficialità nella gestione della nostra vita e di quello che facciamo. Quasi sempre è la mancata attenzione che determina un risultato scadente di quello che stiamo facendo. Portare la nostra consapevolezza al centro della nostra attività, oltretutto ci permette di vivere pienamente la vita. Che è il “core business” della Mindfulness.
… e a proposito delle formiche caccerei il primario del reparto e il direttore sanitario che si dice “dispiaciuto”.
Se il medico non cura il paziente, lo spazzino non pulisce le strade, l’impiegato non sbriga le sue pratiche con la stessa intensità di un monaco, il mondo non sarà mai salvo (Gandhi)