Sono tornato da Udine contento, ma anche un po’ (molto) preoccupato. Vediamo perchè. Uno dei due “ospiti” di questo week end era il Prof. Bergamasco, direttore dell’Istituto di comunicazione, informazione e percezione della prestigiosa Scuola Superiore S. Anna di Pisa. I suoi interventi erano centrati, tra le altre cose, sugli sviluppi ed applicazioni della robotica, intelligenza artificiale e della realtà virtuale. Cosa hanno a che fare questi argomenti con le neuroscienze, con la nostra mente, con la meditazione e con la nostra coscienza? Apparentemente poco ma, a ben guardare, in effetti tantissimo; se si tiene conto di quanto si dirà tra poco.
Il Prof Bergamasco ha esposto, nel corso di due giorni, una serie di considerazioni sullo sviluppo della tecnologia, dell’intelligenza artificiale (IA) di come le loro applicazioni possano impattare sulla nostra vita. Estrapolerò delle sue relazioni alcuni punti che meritano, secondo me, di essere approfondite. Il Prof. Bergamasco ha evidenziato come la IA non sia più solo oggetto di romanzi di fantascienza ma ormai, come dice la pubblicità, “solide realtà”. Basterebbe citare il sistema a guida autonoma delle automobili, basato sull’intelligenza artificiale, che potrebbe entrare in commercio tra poco. Certo, la notizia di qualche giorno fa di una donna morta dopo essere stata investita in Arizona da una vettura guidata in modo autonomo da meccanismi di intelligenza artificiale, non depone bene ma è una buca, certamente drammatica e dolorosa, lungo una strada che, apparentemente, sembra inevitabile per l’uomo percorrere. Certo la IA sembra una buona soluzione per tanti problemi anche se pone degli interrogativi di tipo filosofico e di altro tipo non indifferenti. Ad esempio, la nostra intelligenza, intesa nel senso più ampio possibile, ha bisogno anche delle emozioni per poter funzionare al meglio. Le nostre emozioni rappresentano il barometro che continuamente ci informa di come va il mondo, di quanto le nostre aspettative e previsioni siano rispettate. Ora, dato anche che la IA non ha un corpo mi domando dove sta in essa questo “misuratore” tra mondo e noi? E’ possibile una vera intelligenza senza emozioni? Possono le emozioni essere sostituite da un algoritmo? E se si, cosa ne comporta? Certo gli androidi, basati sulla IA, già oggi sono in grado di “esprimere” o identificare la rabbia o la sorpresa; ma una cosa è provare un’emozione e un’altra è esprimerla.
Altro punto interessante le applicazioni degli ambienti virtuali. Dobbiamo partire da una considerazione generale: paradossalmente noi viviamo già oggi, e direi da sempre, in una realtà virtuale. L’idea, la rappresentazione del mondo, la percezione degli oggetti esterni a noi e anche noi stessi con il nostro corpo avvengono attraverso delle interfacce, i sensi, che ci dicono come è il mondo esterno e quello interno. Diamo talmente fiducia ai nostri sensi da pensare che la realtà sia “esattamente e solo”come noi la vediamo, che non ci sia altra realtà diversa da quella che i nostri sensi ci rimandano. Facciamo qualche esempio. Se io vedo un sasso, i miei sensi mi informano delle caratteristiche di questo oggetto: peso, colore, la temperatura, la solidità, le caratteristiche della superficie etc dato che queste informazioni ci vengono dai nostri sensi: dunque per noi sono reali. Ma non possiamo sapere, non avendo i sensi per misurarla, se in questo sasso è presente della radioattività. Ma se riesco a dotare i miei sensi di un sensore che misuri al radioattività, avrò la “percezione” anche di questa caratteristica fisica. E’ dunque possibile “estendere”, in certo qual senso, i nostri sensi. Pensiamo al tatto: ora posso percepire attualmente solo gli oggetti che sono a diretto contatto con il mio corpo. A distanza di 2 metri questo senso è “cieco”. Attraverso adatti sensori applicati al nostro corpo, posso però, ad esempio, percepire, attraverso il tatto, una superficie a migliaia di chilometri di distanza. Dunque estensioni sia di tipo qualitativo sia quantitativo. Ci sono, però, delle condizioni in cui la realtà, anche la nostra personale, è falsata: pensiamo al fenomeno da sempre conosciuto dell’arto fantasma. In questa condizione un soggetto percepisce, in genere dolorosamente, la presenza di un arto amputato. Paradossalmente questa è una condizione virtuale. Percepiamo qualcosa come reale, qualcosa di cui i nostri sensi ci informano ma che nella realtà, ad esempio la parte amputata, non c’è più; è solo la percezione del nostro cervello. D’altra parte, i nostri smartphone sono già delle estensioni dei nostri sensi, attraverso cui possiamo udire e vedere quanto succede a distanza. Sempre più incisivamente la ricerca sta proponendo, attraverso la realtà virtuale e l’IA di espandere le nostre possibilità di conoscenza e di interazione con la realtà.
E veniamo ad un secondo punto.
La potenza di calcolo dei calcolatori sta raggiungendo livelli e, soprattutto, ad una velocità impensabili: basterebbe pensare che la potenza di calcolo dello smartphone che abbiamo in tasca supera quella del progetto Apollo che portò l’uomo sulla luna. Ora una tale potenza non ha un andamento lineare come si potrebbe pensare, ma logaritmico; il che vuol dire che è sempre più accelerata. Esiste dunque la possibilità che venga raggiunta la cosiddetta “singolarità tecnologica”. Come sostenuto da Ray Kurzweil in un libro del 2005, e confermato l’anno scorso, l’evoluzione della tecnologia e soprattutto la sua velocità sarebbero sul punto di portare, nel 2030, ad un tale punto di sviluppo del genere umano che questi non sarà più in grado di comprendere e prevedere le conseguenze di tale sviluppo. Che questa non sia la previsione di un visionario o di uno scrittore di fantascienza è confermato dalla statura di questo studioso già capo degli ingegneri di Google. Secondo Kurzweil raggiunto questo ipotetico punto la confluenza di robotica AI e il progresso tecnologico permetterà a computers sempre più performanti di autoprogrammarsi aumentando sempre più la distanza tra cervello umano, la sua capacità di controllo e le tecnologie implicate. Anche per i non addetti ai lavori, come noi, è facile capire le implicazioni che questi ipotetici scenari aprono. C’è da dire, però, che non tutti sono d’accordo sulla realtà di queste previsioni. Alcuni, infatti, non solo negano che si possa arrivare realmente a questo punto di sviluppo ma anche che ci possa essere una, diciamo così, autonomizazione dei computers, tali da sganciarsi dal controllo dell’uomo con i relativi rischi annessi. Altri citano le famose 3 leggi della robotica di Asimov che prevederebbero che mai un computer o un robot potrebbe causare un danno all’uomo…..anche se Asimov ha successivamente scritto dei racconti in cui un robot uccide degli uomini.
Le relazioni che esposto ha aperto scenari veramente inquietanti. Anche tenendo conto quanto si dirà nel prossimo post a cui rimando per ulteriori approfondimenti su ibernazione, trasferimento della personalità, e … immortalità.