Nel precedente post ho voluto lanciare qualche idea su quanto la nostra condizione di persone mortali, la nostra mortalità ci può insegnare. Oggi vorrei affrontare una morte molto particolare: quella delle persone affette in generale da una forma di demenza. Sì, perché quella delle persone affette da demenza è una morte particolare. Come mi ha detto una persona con la madre affetta da Alzheimer è la morte dell’anima: c’è un corpo ma non c’è più, apparentemente, l’anima, quell’insieme di caratteristiche e di abilità, linguaggio per citarne uno, che permette a una persona essere in relazione con gli altri. Come vedremo questo è solo apparentemente vero. Tralascio volutamente le cause biochimiche, e le condizioni che ne favoriscono la insorgenza, come tralascio l’impatto di tali patologie sia a livello globale sia, soprattutto, delle singole famiglie. Basta qui citare il dato che il costo a livello mondiale di queste patologie è di 818 miliardi di dollari, pari al 1,09% del PIL mondiale e che questi costi siano in continuo aumento. In questa sede mi preme piuttosto affrontare la grave condizione dei malati e dei cosiddetti “caregivers”, le persone che si prendono cura di questo tipo di malati; spesso entrambi messi nel terribile isolamento di una terra di nessuno.
Parlavo all’inizio di una morte particolare, ma sempre morte. Dice Gabriel Garcia Marquez nel suo libro “Vivere per raccontarla” : La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. Dunque il malato che più o meno rapidamente comincia a perdere i suoi ricordi perde anche la sua vita, e comincia a morire perché perde i suoi ricordi. Se vogliamo ancora più straziante di una morte “normale”, anche di un malato terminale, in cui la persona che muore rimane in fondo se stessa fino alla fine, con la sua personalità, i suoi ricordi e le sue relazioni affettive. Nella demenza quel sé che gli altri ci riconoscono piano piano svanisce, lasciando l’altro, colui che resta, in una terra di nessuno affettiva, perché il malato diventa progressivamente incapace di relazionarsi. Il malato diventa un diverso, diverso da come l’abbiamo conosciuto con i suoi pregi e i suoi difetti, magari con quelle piccole manie e vezzi che lo caratterizzavano. Diventa diverso perché non siamo più in grado di capirlo, perché la sua coscienza e la sua mente abitano territori che a noi non è dato di condividere. Non riconosciamo più, in lui, quel “fil rouge” che da la continuità alla vita di ciascuno di noi. E allora tale morte è, come dicevo prima, ancora più straziante. Abbiamo ancora un corpo che ha delle funzioni vitali, forse ridotte, mangia si muove ma la persona perde via via la coscienza, la consapevolezza.
L’impatto dell’Alzheimer, a livello dell’intero nucleo familiare, è devastante: il malato smette più o meno rapidamente di essere autosufficiente. Ma il dramma vero è che spesso cambia nel profondo arrivando ben presto, come abbiamo visto, a non essere più la persona che era. I “caregivers” sembrano letteralmente consumarsi nel tentativo di essere sempre presenti, inventarsi strategie e attività per ritardare il più possibile l’inarrestabile declino dovuto alla malattia. E’ una battaglia continua tra impegni legati da una parte all’assistenza alla persona e dall’altra ai propri impegni familiari, lavorativi etc.
C’è però una battaglia ancora più silenziosa ma non meno sanguinosa ed è quella che le persone che hanno una persona cara colpita da demenza conducono dentro di sé. Ed è una battaglia senza esclusione di colpi tra emozioni forti e contrastanti: rabbia, amore e dolore, paura e senso di inadeguatezza, smarrimento e desideri di morte, voglia di combattere e solitudine. Tutte insieme queste emozioni e pensieri rischiano di diventare una miscela esplosiva senza che si veda il modo di disinnescarla, ma con la necessità assoluta di farlo.
Ho avuto, attraverso i miei corsi di Mindfulness Based Stress Reduction, la possibilità di accompagnare alcune persone in un percorso di maturazione e di accettazione della demenza di un congiunto. I protocolli basati sulle pratiche di consapevolezza, la Mindfulness, si pongono come obbiettivo quello di mettere a punto una modalità diversa di approcciarsi alla vita. Modalità più piena perché impara ad osservare in modo non giudicante lo svolgersi della propria esistenza, momento per momento belli o brutti che siano: senza fughe verso un futuro solo ipotizzabile o verso un passato non più modificabile. Sostanzialmente imparando ad accettare la realtà così come è. Si prende così consapevolezza che la nostra sofferenza, fisica o psichica, è in gran parte legato alla nostra mente e ai suoi meccanismi. Sono i nostri pensieri a condizionarci e ad aumentare la nostra sofferenza.
Parlavo di accettazione dato che ritengo che il primo punto, quello centrale, sia proprio quella dell’accettazione; nello specifico accettazione della malattia e del malato. Accettare, in questo contesto, ha una serie di significati profondi. Vuol dire essere consapevoli della realtà della malattia con le sue conseguenze di cronicità e progressivo impoverimento delle capacità cognitive e relazionali di un nostro caro. Vuol dire, per conseguenza, accogliere l’altro con i suoi cambiamenti, le sue bizzarrie e i suoi deficit . Vuol dire riconoscere la necessità di utilizzare canali comunicativi diversi. Sappiamo, ad esempio, che nella comunicazione solo il 7% dipende dall’uso delle parole, mentre il 93% dipende dal linguaggio del corpo, della voce etc. L’efficacia di un messaggio dipende quindi solamente in minima parte dal significato letterale di ciò che viene detto, e il modo in cui questo messaggio viene percepito è influenzato da elementi non verbali. La malattia di Alzheimer sembra colpire solo tardivamente le capacità di comunicazione non verbale: le persone affette da demenza percepiscono non tanto ciò che si dice ma come viene detto. Vuol dire, dunque, adottare strategie comunicative diverse, più centrate sulla carezza, sulla vicinanza fisica, sull’abbraccio etc. Vuol dire comprendere che il comportamento aggressivo o bizzarro, comunque disturbante, è spesso l’unica forma di comunicazione che il malato riesce a proporre per esprimere un suo disagio o un suo bisogno. C’è, infine, un altro aspetto dell’accettazione che mi sembra importante. Quasi una necessità speculare: come diventiamo più compassionevoli nei confronti del malato, c’è per il benessere di chi accudisce anche la necessità di essere compassionevoli e accudenti nei confronti di se stessi. Vuol dire accettare anche i nostri momenti di stanchezza, le nostre difficoltà, i nostri pianti. Come impariamo a “perdonare” il malato dobbiamo perdonare noi stessi. E perdonare se stessi vuol dire smettere di accusarci e, in sostanza, di torturarci e di soffrire per i nostri limiti. Anzi vuol dire concederci la possibilità di chiedere aiuto nella gestione di situazione così complessa e complicata come quella di un malato di Alzheimer; regalarci la possibilità di riconoscere la nostra debolezza e le nostre difficoltà. Non è una semplice e banale operazione di autoassoluzione che ci libera dalle nostre responsabilità, ma piuttosto, eliminare il carnefice ingiusto che ci giudica e che, in ultima analisi, aumenta la nostra sofferenza. Accettare l’oggi del nostro caro vuol dire godere, ad esempio, del fatto che, almeno per qualche istante, i suoi occhi ci fanno capire che ci ha riconosciuto; sapendo che potrebbe essere l’ultima volta. Accettare vuol dire riconoscere che il suo tempo, così lento dilatato e vuoto, è un tempo diverso dal nostro così accelerato e vorticoso; e come questo comporti la necessità di rivedere non solo i tempi del malato ma anche i nostri.
“Accudire un malato di Alzheimer è in fondo osservare da vicino un fenomeno paradossale: non più la morte che fa scomparire la coscienza ma la perdita della coscienza che anticipa la morte.” (Cit. P. M. Figlia di un paziente con demenza)