Siamo, in generale, realmente impressionati della tecnologia e delle sue possibilità. Pensiamo che la tecnologia sia in grado di risolvere tutti i problemi: dalla dieta da tenere al consumo di calorie di una certa attività fisica, dalla gestione del tempo libero alla valutazione di un certo ristorante, dalla comunicazione, vedi Facebook, alla possibilità di esprimere e diffondere un’idea, come questo che sto adoperando. Ancor di più l’essere disconnessi dalle nostre applicazioni sembra la peggior maledizione dei tempi attuali. E i dati ci dicono infatti che, ad esempio, il mercato delle applicazioni, pur mostrando una certa saturazione, è in continua espansione. Qualche dato: nell’Apple Store si possono acquistare oltre 2 milioni di applicazioni, quasi un universo parallelo, e nel 2015 sono stati scaricati oltre 156 miliardi di applicazioni a livello mondiale. Solo in Italia il mercato delle applicazioni, diventate sempre più pervasive, contribuisce al 2,5 % del PIL.
La nostra “ossessione tecnologica” ci porta, concretamente, a pensare che applicare l’aggettivo “tecnologico” sia quasi dare una patente di affidabilità e di utilità a qualunque aspetto della vita essa venga applicata. Abbiamo fatto della tecnologia un totem, un feticcio che, quasi come una divinità primitiva, chiede sottomissione e “sacrifici” adeguati; e al pari di una divinità pagana non accetta di essere messa in discussione. Ne abbiamo fatto un valore assoluto dimenticando, completamente, che la tecnologia è solo un mezzo che presenta un valore solo in funzione dell’uso che se ne fa. Banalmente, posso utilizzare la tecnologia per costruire missili a testata nucleare oppure per migliorare i raccolti in paesi sottosviluppati.
Un ricordo: durante il mio tirocinio pre-laurea all’università incontrai casualmente un tecnico americano che aveva lavorato durante la guerra del Vietnam, terminata nel 1975, ad un progetto, indubbiamente molto sofisticato per quegli anni, di una multinazionale americana molto conosciuta. In sostanza, le zone in cui si sospettava la presenza dei Viet-Cong e coperte da boscaglie, venivano bombardate con delle piccole frecce che si conficcavano nel terreno. Queste avevano la possibilità di trasmettere un segnale via satellite quando registravano la presenza di urina umana in aree disabitate, identificata da alcune caratteristiche chimiche diverse da quella degli animali. Il segnale inviato permetteva di identificare l’area da cui proveniva il segnale. Immediatamente si alzavano in volo aerei che bombardavano la zona. Questa “meraviglia” di tecnologia ha certamente contribuito ai costi del conflitto stimati, ufficialmente e certamente per difetto, in oltre 175 miliardi di dollari dell’epoca. Un bell’affare, non c’è che dire, per una guerra, persa, con pesanti costi umani e sociali sia in ambito nazionale sia internazionale. Questo ricordo mi è venuto in mente scrivendo questo post e mette in evidenza la necessità di sostituire l’accettazione acritica con una riflessione che, paradossalmente, proprio la sopravvalutazione della tecnologia tende a negare.
La pervasività della tecnologia ha invaso ovviamente anche la medicina che è diventata, giustamente, sempre più tecnologica. Basterebbe citare gli enormi progressi fatti in ambito riproduttivo, in cui la sterilità di coppia non è più una maledizione irrisolvibile essendo state messe a punto diverse tecniche che permettono alle coppie di diventare genitori. Dunque non è che la tecnologia, di per sé, sia un fatto negativo. Anzi. Chi, come me, ha “vissuto” gli ultimi 40 in ospedale ha beneficiato, nel suo lavoro, della tecnologia applicata alla medicina: diagnosi più accurate e più rapide, miglioramento della prognosi, farmaci sempre più specifici ed efficaci, sopravvivenze aumentate, miglioramento delle condizioni di vita e recupero delle funzioni in una serie di patologie da quelle oncologiche a quelle cardiovascolari.
Tutto bene, dunque? Si e no
Si per quanto detto in precedenza; no per uno spostamento del fuoco di attenzione sempre più evidente dal malato alla tecnologia. Come medico devo applicare anche la scienza e la tecnologia, al pari di un pittore che sa che unendo il colore giallo a quello blu ottiene il verde. Ma se essere pittore volesse dire solo questo, forse i suoi quadri non sarebbero poi tanto belli. Così l’abilità del medico è quella di utilizzare la tecnica e la tecnologia senza dimenticare che questa deve poi essere interfacciata con l’universo/uomo che si ha davanti. Vuol dire ricordare un fatto fondamentale che l’essere umano non è fatto solo da un corpo, da una biochimica, da ormoni e ossa e muscoli; ma è essenzialmente relazione, storia, valori, aspettative. Qui non si tratta di mettere in contrasto tecnica e tecnologia da una parte e quella che è stata chiamata “medical humanities” dall’altra. Vale a dire tutti gli aspetti sociologici antropologici etc che influenzano profondamente malato e malattia. Vuol dire piuttosto tener presente la relazione esistente tra “care givers”, medico infermiere o psicologo che sia, e paziente con la dimensione sociale e antropologica della malattia e soprattutto del malato.
Fare medicina e fare salute vuol dire, dunque, considerare il malato non solo come portatore di una patologia. Prendiamo, ad esempio, un paziente a cui è stata diagnosticata una massa addominale di incerta natura; certamente dovremo utilizzare tutti gli strumenti tecnici che abbiamo a disposizione: Risonanza Magnetica, TAC, etc per arrivare il prima e il più accuratamente possibile a una diagnosi per impostare la terapia corretta, magari utilizzando la tecnologia più avanzata come la chirurgia robotica che permette di operare, volendo anche a distanza, con macchinari molto sofisticati che permettono di compiere movimenti con una precisione e con modalità impossibili alle mani umane. Fatto tutto questo, però, non possiamo ancora dirci soddisfatti, abbiamo solo fatto un lavoro da meccanici “aggiustando”, a volte in modo solo parziale, il pezzo rotto o mal funzionante. Ci resta ancora la parte essenziale: calare queste meraviglie tecnologiche nel vissuto del paziente. Parlavamo prima di relazione, storia, valori e aspettative. Perchè il paziente, come qualunque essere umano, è fatto di tutto questo; è fatto di biologia, ossa e muscoli, cuori e vasi, ma anche e soprattutto di aspetti che gli vengono dalle sue relazioni, relazioni che vengono colpite, a volte in modo importante, dalla sua malattia. La malattia non cade in un vuoto, ma in un vissuto, quello del paziente, che gli viene dalla sua storia dove ha maturato le sue convinzioni e i suoi valori più profondi, ed in cui sono vive le sue aspettative.
Ho la profonda convinzione che, almeno in alcuni casi, noi medici siamo non solo affascinati, come tutti, dalla tecnologia, ma spesso così innamorati della stessa da dimenticare la dimensione umana e relazionale che rappresenta il “core business” della nostra professione. “Innamoramento” che purtroppo coincide con un impoverimento della relazione medico-paziente; impoverimento così spesso lamentato dai pazienti.
Oggi occorre non soltanto curare ma piuttosto prendersi cura del malato nella sua globalità, nelle sue debolezze e nel suo bisogno di essere compreso e accettato, sostenuto e rispettato. La tecnologia, dunque, non può sostituirsi al rapporto che si crea fra il paziente ed il medico; questo territorio, per certi versi magico, in cui avviene una relazione di cura. I medici hanno una grande responsabilità, al pari dei pazienti che hanno il diritto e il dovere di chiedere e pretendere dal proprio medico il rispetto di questo territorio.
Il medico sarà tanto migliore, quanto migliore sarà il proprio paziente.
Non è passato un secolo dai miei tempi, ma molti secoli. La tecnologia di oggi era impensabile cinquanta-sessant’anni fa. Ma la tecnica da sola non basta, serve una visione più ampia (R. Levi Montalcini)
La perfezione della tecnologia e la confusione degli obiettivi sembrano caratterizzare la nostra epoca (A. Einstein)