Quando si dice la sincronicità. Nei giorni scorsi ho sentito una barzelletta e mi è venuto sottocchio un articolo di un delizioso librettino che consiglio: 101 storie zen edito da Adelphi. Cominciamo da quest’ultimo.

“Qualunque monaco girovago può fermarsi in un tempio Zen, a patto che sostenga coi preti una discussione sul Buddhismo e ne esca vittorioso. Se invece perde, deve andarsene. In un tempio nelle regioni settentrionali del Giappone vivevano due fratelli monaci. Il più anziano era istruito, ma il più giovane era sciocco e aveva un occhio solo. Arrivò un monaco girovago e chiese alloggio, invitandoli secondo la norma a un dibattito sulla sublime dottrina. Il fratello più anziano, che quel giorno era affaticato dal molto studio, disse al più giovane di sostituirlo. “Vai tu e chiedigli il dialogo muto” lo ammonì.Così il monaco giovane e il forestiero andarono a sedersi nel tempio.
Poco dopo il viaggiatore venne a cercare il fratello più anziano e gli disse: “Il tuo giovane fratello è un tipo straordinario. Mi ha battuto”.

“Riferiscimi il vostro dialogo” disse il più anziano.

“Bè,” spiegò il viaggiatore “per prima cosa io ho alzato un dito, che rappresentava Buddha, l’illuminato. E lui ha alzato due dita, per dire Buddha e il suo insegnamento. Io ho alzato tre dita per rappresentare Buddha, il suo insegnamento e i suoi seguaci, che vivono la vita armoniosa. Allora lui mi ha scosso il pugno chiuso davanto alla faccia, per mostrarmi che tutti derivano da una sola realizzazione. Sicchè ha vinto e io non ho nessun diritto di fermarmi”. E detto questo, il girovago se ne andò.

“Dov’è quel tale?” domandò il più giovane, correndo dal fratello anziano.

“Ho saputo che hai vinto il dibattito”.

“Io non ho vinto un bel niente. Voglio picchiare qull’individuo”.

“Raccontami la vostra discussione” lo pregò il più anziano.

“Accidenti, non appena mi ha visto lui ha alzato un dito, insultandomi con l’allusione che ho un occhio solo. Dal momento che era un forestiero, ho pensato che dovevo essere cortese con lui e ho alzato due dita, congratulandomi che avesse due occhi. Poi quel miserabile villano ha alzato tre dita per dire che tra tutti e due avevamo soltanto tre occhi. Allora ho perso la tramontana e sono balzato in piedi per dargli un pugno, ma lui è scappato via e così e finita”.» (101 Storie Zen Ed. Adelphi)

           Ed ecco la barzelletta: Un uomo decide di fare il giorno dopo, di buon mattino, una gita in bicicletta. Prepara, fin dalla sera prima, tutto l’occorrente: borraccia, scarpette, tuta. etc. La mattina dopo, alle 7, si alza, va in garage, trovando tutte e due le gomme a terra. A questo punto si accorge di non avere la pompa per gonfiare le gomme e pensa di rivolgersi a Mario un vicino di casa, anche lui amante della bicicletta. Si avvia dunque e per strada comincia a pensare: Non è che Mario si arrabbia perchè sono le 7 del mattino? Va beh che oggi e domenica ma in fondo gli sto solo chiedendo di perdere 5 minuti. Ieri l’ho pure salutato senza che rispondesse al mio saluto. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto ed ce l’ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse una pompa per la bicicletta, io gliela darei subito. E perché lui no? Cosa ha paura? Che gliela rovini? Ma se questa è la sua preoccupazione può stare tranquillo, so come funziona una pompa!! E anche se si dovesse rompere cosa pensa, che non abbia i soldi per ricomprarla?! Come si può rifiutare al prossimo una cosa così semplice come una pompa da bicicletta? Gente così rovina l’esistenza agli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché possiede una pompa. Adesso basta! E così, arrivato a casa del suo amico,  suona, il vicino apre, e prima ancora che questo abbia il tempo di dire “Buon giorno”, gli grida: “Senti, tieniti pure la tua pompa! Vorrà dire che la chiederò a qualcun’altro”.

          In fondo, questi due racconti ci dicono la stessa cosa: il nostro modo di approcciare la realtà dipende, il più delle volte, non tanto da dati di fatto oggettivi ma dal “film” che la nostra mente ci preconfeziona. Questa è la modalità di funzionamento abituale della nostra mente: essa ci fornisce una scatola in cui far entrare la realtà, a volte con la forza.  Certamente è un modo pratico, “economico” e comodo, anche se, purtroppo, questa modalità  molte volte si dimostra inefficace e fuorviante dato che ci impedisce di approcciare la realtà in modo corretto. Ci impedisce, soprattutto, di valutare tutte le opzioni che una mente aperta e flessibile ci potrebbe fornire. Finiamo così per vivere, secondo schemi preconfezionati, una vita senza la consapevolezza della realtà vera, utilizzando quello che Kabat-Zinn definisce pilota automatico e che decide lui dove portarci. Il problema si complica se trasportiamo questa modalità automatica  nelle relazioni interpersonali. In questo scenario, infatti, c’è un’alta variabile: l’altro. Anche lui, facilmente, cade nella trappola della mente e della sua scatola. Così che il famoso scioglilingua “io so che tu sai che io so”, in realtà, correttamente, dovrebbe essere cambiato in “io falsamente so che tu falsamente sai che io falsamente so”. Come uscire da questa impasse? Probabilmente, la maniera migliore è quella di mantenere al nostra mente aperta a tutti gli scenari possibili, metterci nella prospettiva dell’altro, cercare di vedere quello che l’altro vede, evitando di applicare, in modo rigido, le nostre categorie mentali, e relativizzando il nostro punto di vista. Cosa che, ad esempio, non succede nei depressi. In questi soggetti, è presente un rimugginio che continuamente in modo intrusivo determina lo stato d’umore. Un pensiero intrusivo e rigido che si basa quasi sempre su un dialogo della mente con se stessa ed ha connotati di autosvalutazione: “Ecco ho sbagliato ancora una volta”, “non valgo niente” “Non sono una persona che possa essere amata o stimata”, etc etc.  E, quasi sempre, determina quella che è stata definita la ” profezia autoavverantesi”. Ma di questo parleremo nel prossimo post.

Vale la pena di citare, per chiudere, un pensiero di P. Watzlawick: “L’illusione più pericolosa è quella che esita un’unica realtà”

 

 

 

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